Arturo Graf, «Artù nell’Etna», in Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo [1892-93], a cura di Clara Allasia e Walter Meliga, Milano 2002
I
Per secoli fu creduto che Artù, mortalmente ferito in battaglia, non fosse mai morto, ma vivesse in luogo incantato e recondito, d’onde sarebbe, una volta o l’altra, per far ritorno e prender vendetta de’ nemici del suo popolo e suoi. Si sa quale luogo tenesse nella coscienza dei Brettoni vinti, ma non caduti di animo, sì fatta credenza; come intimamente si legassero ad essa i ricordi loro più dolorosi e le più accarezzate speranze; come tutto il sentimento loro di nazione trovasse in essa una consacrazione ed un simbolo. Alano de Insulis (m. 1202) ricorda come ai tempi suoi quella credenza fosse ancora così viva e comune in Armorica che il contraddirla avrebbe portato pericolo di lapidazione. Fra le genti d’altra stirpe la lunga e paziente aspettativa diede il tema a locuzioni proverbiali notissime; e Arturum expectare tanto venne a dire quanto aspettar ciò che non può né deve avvenire; e speranza brettone fu sinonimo di speranza vana ed assurda. A sì fatta speranza sono frequenti accenni nei trovatori di Provenza, e dai trovatori di Provenza, se non da altri, avrebbero gl’Italiani potuto averne agevolmente contezza. Arrigo da Settimello, nel suo poema latino De divertiste fortunae et philosophiae consolatione, composto circa il 1192, la rammenta due volte:
Et prius Arturus veniet vetus ille Britannus, Quam ferat adversis falsus amicus opem. Qui cupit auferre naturam seminat herbam Cujus in Arturi tempore fructus erit.
Nel 1248 quei di Parma, assediati da Federico II, colta un giorno l’occasione che l’Imperatore era andato a cacciare, uscirono fuori con grande impeto, e presero e distrussero la città di Vittoria, dai nemici edificata quasi sotto le loro mura. Non molto dopo, l’avvenimento fu celebrato in tre carmi, nel terzo de’ quali l’anonimo poeta, accennando alle vane minacce dell’imperatore, dice:
Cominatur impius, dolens de iacturis, Cum suo Britonibus Arturo Venturis.
Secondo l’antica tradizione brettone raccolta da Goffredo di Monmouth, Morgana aveva trasportato Artù ferito in quella paradisiaca isola di Avalon, altrimenti detta Insula pomorum, o Fortunata, della quale è sì frequente ricordo in croniche e in poemi del medio evo, ma non era possibile che, o prima o poi, la finzione non variasse su questo punto, specie migrando fuor di patria, prendendo ad allignare fra nuove genti, incontrandosi con altre finzioni, offerendosi a esplicazioni e connettimenti nuovi. Come Orlando, t’atto cittadino di altre patrie, ebbe mutato il luogo della sua nascita e il teatro delle prime sue gesta, così Artù ebbe mutato il luogo della sua miracolosa segregazione. Ed ecco farcisi innanzi una tradizione, la quale sembra abbia smarrito ogni ricordo dell’isola di Avalon, e pone la incantata dimora di Artù nell’interno dell’Etna. Gervasio da Tilbury, primo fra gli scrittori di cui abbiamo notizia, la riferisce nel modo che segue: «In Sicilia è il monte Etna, ardente d’incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant’Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Artùro. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo bene pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d’ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Artùro adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perché lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondoché dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto». Esaminiamo un po’ questo curioso racconto. Gervasio lo dà per genuino ed autentico, e diffuse tra i Siciliani, almeno tra quelli di Catania e della rimanente regione circostante all’Etna. Intorno a ciò si potrebbe muovere un primo dubbio, e sospettare che il tutto sia invenzione di Gervasio; e il sospetto non sarebbe certo irragionevole. Negli scrittori Siciliani che trattano dell’Etna e dell’altre singolarità dell’isola, non si trova cenno di così fatta novella. Oltre di ciò Gervasio fu inglese; compose per un principe inglese il suo Liber facetiarum, ancora inedito, e per un imperatore mezzo inglese, Ottone IV, i suoi Otia; così che si può dire ch’egli dovesse essere trascinato a narrare, in un libro tutto pieno di favole, anche qualche nuova favola di Artù, e non trovandone alcuna che già non fosse notissima, inventarla. Altri scrittori, in picciol numero, l’avrebbero, più tardi, attinta da lui. Ma a queste considerazioni altre se ne possono opporre, che conducono a diverso giudizio. Gervasio passa per uno degli scrittori più bugiardi del medio evo; ma tale opinione, se non vuol essere ingiuriosa ed erronea, deve ridursi in più giusti termini. Gervasio è bugiardo perché riferisce molte cose non vere; non già perché se le inventi: volendo parlar rettamente egli è favoloso e non bugiardo; e come scrittore favoloso appunto ha, in questi ultimi tempi, acquistato importanza notabile agli occhi di quanti attendono allo studio dei miti e delle leggende medievali. Gervasio viaggiò pressoché tutta l’Italia, e negli Otia molte cose racconta imparate per lo appunto in Italia: fu in Sicilia, ai servigi di re Guglielmo, innanzi al 1190, ed ebbe agio di conoscere direttamente, per informazioni immediate, molte particolarità di quella terra, delle quali dà conto nel capitolo stesso in cui narra la leggenda trascritta pur ora. E nel racconto di tale leggenda sono alcuni accenni a cose vere e reali, che, mentre rivelano nell’autore un testimone di veduta, o un ripetitore bene informato, confermano il carattere tradizionale di esso. Dei miracoli operati dal corpo di Sant’Agata in guardar la città di Catania dagl’incendii dell’Etna, è frequente il ricordo nelle croniche siciliane. Ciò che si dice del cavallo del vescovo è pure conforme al vero; giacché sappiamo, non solo che su quelle pendici del vulcano si allevavano cavalli di molto pregio e vigore, non meno agili che animosi; ma, ancora, che per la troppa ubertà dei paschi, gli animali d’armento e di greggia ci venivano soverchio gagliardi e baliosi, cosicché a certi tempi dell’anno bisognava trar loro sangue dalle orecchie. Subito dopo aver narrata la leggenda siciliana, Gervasio ne narra un’altra, diffusa per le due Brettagne, e dove Artù si presenta sotto l’aspetto del cacciatore selvaggio; e questa seconda leggenda è sicuramente popolare. Finalmente, un po’ più oltre, ricorda come, secondo la volgare tradizione dei Brettoni, Artù fosse stato trasportato nell’isola di Davalim (sic), e come quivi Morgana lo custodisse e curasse. Poiché entrambe queste leggende appartengono notoriamente alla tradizione, noi abbiamo una ragione di più per credere che alla tradizione appartenga anche la prima. E che vi appartenga davvero cel prova, oltre a quanto dovrò dire più innanzi, anche il fatto del trovarla narrata, in forma alquanto diversa, da uno scrittore di poco posteriore a Gervasio, e da lui indipendente; Cesario di Heisterbach, che la racconta in tal modo. «Nel tempo in cui l’imperatore Enrico soggiogò la Sicilia, era nella Chiesa di Palermo un decano, di nazione, secondo ch’io penso, tedesco. Avendo costui, un giorno, smarrito il suo palafreno, che ottimo era, mandò il servo per diversi luoghi a farne ricerca. Un vecchio, fattosi incontro al servo, gli chiese: Dove via? e che cerchi? Rispostogli da quello che cercava il cavallo del suo padrone, soggiunse il vecchio: lo so dov’è. E dove? Nel monte Gyber (sic), in potere del re Artùro, mio signore. Quel monte vomita fiamme come Vulcano. Stupì il servo in udire tali parole, e l’altro soggiunse: Di’ al tuo padrone che da oggi a quattordici dì venga alla corte solenne di lui; e sappii che tralasciando di dirglielo, sarai punito aspramente. Tornato addietro, il servo espose, non senza timore, quanto aveva udito. Il decano si rise di quell’invito alla corte del re Artùro; ma, ammalatosi, morì il giorno prestabilito». Il racconto è, in parte, quello stesso di Gervasio, e, in parte, è diverso. Il cavallo smarrito, il servo che ne va in traccia, la misteriosa dimora di Artù, sono comuni ad entrambi, mostrano che i due hanno, quanto alla sostanza, la medesima origine; ma, da altra banda, quello di Cesario differisce tanto da quello di Gervasio che, ragionevolmente, non si può supporre ne sia derivato. Nel Dialogus miraculorum non è neppure un indizio che Cesario abbia avuto conoscenza degli Otia. Si potrebbe, gli è vero, pensare che Cesario, togliendo il racconto a Gervasio, lo alterasse; e foggiasse deliberatamente a quel modo, per meglio accomodarlo all’indole della distinzione XII del suo libro; ma contro questa congettura sta il fatto che Cesario è, nel narrare, coscienzioso e fedele sino allo scrupolo; che ripete esattamente, senza aggiungervi di suo, gli altrui racconti; e che sempre, quando può, cita i nomi di coloro da cui gli ebbe, o i libri onde li trasse. Oltre di ciò, non si vede che di quell’alterazione egli potesse molto giovarsi per i suoi fini, dacché il racconto, quale egli lo reca, è, fra quanti ne novera la distinzione XII, il più povero di significato, quello di cui meno s’intende l’insegnamento. Altre cose poi son da notare, le quali accennano a fonti diverse e di più torbida e tortuosa vena. Cesario parla di un decano di Palermo, e sembra ponga Palermo dov’è Catania, alle falde dell’Etna. La forma Palernensi, usata da lui, non è né latina, né italiana, ma francese, trovandosi spesso ne’ testi francesi Palerne per Palerme (Guillaume de Palerne, ecc.). Può ciò, bastare per supporre una fonte francese? gli è poco, ma gli è pur qualche cosa. Alcuna considerazione vuol pure quel monte Gyber. Il nome di Mongibello fu fatto capricciosamente derivare da Mulcibero, da Mons Cybeles, da Monte Bella, e persino da Monte di Beel; ma esso è veramente nome composto di due nomi comuni e d’egual significato, italiano l’uno, monte, arabico l’altro, gibel, che non vuol, altro dire che monte; e trovasi non di rado scritto disgiuntamente come appunto di Cesario. Monte Gibero si ha in testi Italiani; perg Gyfers o Givers in testi tedeschi. Per quell’avvertimento che si dice dato dall’incognito vecchio al servo, e concernente il decano, il racconto di Cesario si raccosta a una intera e numerosa famiglia di racconti esemplari, di cui dirò fra poco, e nei quali i vulcani hanno parte cospicua. In fondo il racconto di Cesario è quello stesso di Gervasio, ma alterato alquanto, per infiltrazioni penetratevi, come pare, da un gruppo d’altri racconti, molto più antichi, e d’indole; affatto diversa. I due si accordano inoltre abbastanza quanto al tempo. Gervasio dice il fatto accaduto nostris temporibus; Cesprio eo tempore quo Henrietta imperator subjugavit sibi Syciliam. Nulla vieta di riferire la espressione di Gervasio agli ultimi tempi del soggiorno di lui in Sicilia; e quanto alla conquista di Enrico VI, si sa che avvenne nel 1294. Il racconto di Cesario rivela, come diceva testè, certe infiltrazioni che in quello di Gervasio non appajono. Penetra in esso un elemento pauroso e tetro, alcun che di infernale e di diabolico che certamente fu estraneo alla tradizion primitiva e più genuina. In esso la leggenda epica non è ancor trasformata, ma tende già a trasformarsi in leggenda ascetica: in un altro racconto, posteriore di poco a quello di Cesario, la trasformazione si vede compiuta. Stefano di Borbone, morto circa il 1261, narra il fatto a questo modo. «Udii narrare a un frate di Puglia, per nome Giovanni, il quale diceva esser ciò avvenuto dalle sue parti, che cert’uomo, andato in traccia del cavallo del suo signore su pel monte presso a Vulcano (sic), ove si crede sia il purgatorio, vicino alla città di Catania, trovò secondo gli parve, una città, che aveva una postierla di ferro, e a colui che la custodiva chiese notizia del cavallo che andava cercando. Il custode gli rispose che n’andasse sino alla corte del principe, il quale, o gliel farebbe restituire, o gliene darebbe notizia; e richiesto dall’altro, in nome di Dio, di alcuna norma circa quell’andata, soggiunse badasse bene di non mangiare di nessuna vivanda che potesse essergli offerta. Parve al cercatore di vedere per le vie di essa città tanti uomini quanti ne sono nel mondo, di ogni generazione e condizione. Passando per molte sale, giunse ad una, ove scorse il principe circondato da’ suoi. Ecco gli offrono molti cibi, ed ei non vuole gustar di nessuno: gli mostrano quattro letti, e gli dicono che l’uno d’essi è apparecchiato pel suo signore, gli altri tre per tre usurai. E gli dice il principe che al signor suo e ai tre usurai assegnava certo giorno come termine perentorio a comparire, e che mancando, sarebbero menati a forza; e gli dà un nappo d’oro, con coperchio d’oro, e lo ammonisce che non l’apra, ma lo rechi in segno della cosa, al padrone, perché questi beva della sua bevanda; e, di giunta, gli fa restituire il cavallo. Se ne torna il famiglio; adempie il precetto: s’apre il nappo e ne schizza fiamma; si getta il nappo nel mare e il mare si accende. Quei quattro, sebbene confessi (per timore solo, e non per penitenza), il dì assegnato sono rapiti sopra quattro cavalli neri». Qui abbiamo, in sostanza, il fatto stesso narrato da Gervasio e da Cesario, ma con particolarità nuove, che mostrano un crescente infoscamento della leggenda, e la preponderanza presa dagli elementi infernali e diabolici. Secondo Gervasio, Artù mandò regali al padrone del cavallo, né in modo alcuno gli nocque: secondo Cesario, un ministro di Artù impose, per mezzo del servo, al padrone del cavallo di presentarsi a giorno fisso alla corte del principe: secondo Stefano, il principe assegnò il giorno del comparire al padrone del cavallo e a tre usurai ad un tempo. Nel racconto di Cesario non s’intende il perché di quell’assegnazione; ma ben s’intende nel racconto di Stefano, dove la coppa ignivoma, che parrebbe un simbolo del vulcano, e la compagnia de’ tre usurai, e quei quattro letti, che non dovevano essere letti di rose, e, più che tutto, i quattro cavalli negri rapitori, lasciano subito intendere di che cosa si tratti. Quella città è una città infernale: quel principe, se non è Satanasso in persona, è uno de’ suoi maggiori ministri; e perciò non si chiama più Artù, sebbene sia stato Artù in origine. Anche quella particolarità di non dovere accettare cosa che sia offerta, si trova in numerose leggende diaboliche. Stefano di Borbone compose il libro ove questo racconto si legge negli ultimi anni di sua vita, e conobbe gli Otia di Gervasio e li cita; ma alla narrazion di costui preferì, egli che andava in traccia di esempii predicabili, la narrazion più opportuna dell’ignoto frate di Puglia. Vedremo or ora che questa graduale alterazione della leggenda, lungi dall’essere capricciosa e arbitraria, era in certo qual modo ragionevole e necessaria, ma devesi, innanzi a tutto, insistere sul fatto che la version primitiva non è quella di Stefano, e nemmeno quella di Cesario; ma bensì quella di Gervasio; anzi una in cui l’elemento romanzesco e cavalleresco doveva essere assai più copioso che nel racconto di Gervasio non sia. Tale prima versione dovette essere affatto serena, affatto consentanea alle forma e allo spirito dell’altre finzioni brettoni; e noi possiamo credere di rintracciarla, o di rintracciarne una che poco se ne discosti, in un vecchio poema francese intitolato Floriant et Florète, e pochissimo noto. Questo poema, composto già forse nel secolo XIII, ma più probabilmente nel successivo, è di pochissimo pregio, rileva assai poco nella storia delle finzioni brettoni, e non avrebbe anzi, rispetto ad esse, importanza alcuna, se non fosse per quella leggenda arturiana che ci si vede intessuta. Qui la leggenda non è, come nei racconti di Gervasio, di Cesario e di Stefano, una immaginazione slegata e smarrita, ma si allaccia a un’azione epica, qual ch’essa sia, e fa corpo con altre leggende e immaginazioni del ciclo. È questa una prima ragione che il rende meritevole d’attenzione e di studio; ma ce ne sono dell’altre. Nei racconti di Gervasio e di Cesario (lasciamo in disparte ora quello di Stefano) si narra un fatto particolare, occorso ai tempi di quegli scrittori; ma fanno difetto le ragioni e i presupposti del fatto stesso. La leggenda in essi narrata rimanda necessariamente ad un’altra più antica, nella quale doveva dirsi come e perché Artù fosse capitato nell’Etna. Ora, quelle ragioni e quei presupposti, e quella più antica leggenda, noi troviamo per l’appunto, almeno in parte, nel romanzo francese, la cui azione si svolge mentre il re Artù è ancora nel suo regno, a capo de’ suoi cavalieri. Qui l’Etna è una specie di regno fatato, dimora consueta della sorella di Artù, Morgana, e del numeroso suo seguito: e quello che nei romanzi francesi del medio evo si chiama comunemente Faerie, ossia paese o città delle fate: c’estoit l’eur maistre chastel, dice il poeta parlando di Morgana e delle sue compagne. In esso Morgana conduce Floriant, figliuolo di un re Elyadus di Sicilia, il quale era stato ucciso dal traditore Maragot; e ve lo fa educare. Il luogo è assai piacente, e ci si mena vita giojosa, e non ci si può morire. Floriant torna poi nel mondo, e incontra molte avventure; ma la buona Morgana, quando conosce ch’egli è prossimo alla sua fine, lo attira di nuovo nell’incantato soggiorno, e ci fa venire anche la moglie di lui, Florete. Artù, che si suppone ancora sano e fiorente, ci andrà poi ancor egli a suo tempo, come annunzia la stessa Morgana (vv. 8238-40):
Li rois Artùs, au defenir, Mes freres i ert amenez Quant il sera a mort menez.
Quando poi Artù ci fu andato, s’intende che ogni occasione poteva esser buona a fare ch’egli palesasse in qualche modo la sua presenza; e s’intende pure ch’egli dovesse diventare il personaggio principale di quella corte fatata, e respinger nell’ombra, se non far dimenticare, tutti gli altri. Così la leggenda si circoscriveva e si addensava, diventando più particolarmente la leggenda di Artù nell’Etna. E in vero, nei due racconti di Gervasio e di Cesario, Morgana non è neppure nominata: in quello del primo, il monte è la curia, o, corte, di Artù; in quello del secondo, Artù è signore del monte. Ora io credo che la cagione prima del trasponimento della Faerie di Morgana nell’Etna, sia appunto Artù, e ciò per ragioni che vedremo alquanto più oltre. Ecco dunque uno scrittore inglese, uno scrittore tedesco, due scrittori francesi, porgere documento di una leggenda medesima, variata, dirò così, nella buccia, ma rimasta pur sempre quella nel nocciolo e nel midollo. E le testimonianze non finiscono qui, potendosi alle forastiere aggiungerne una nostrana, assai scarsa ed asciutta a dir vero, ma non però meno significativa. In una rozza e bizzarra poesia, appartenente, come pare, al secolo XIII, e pubblicata son pochi anni, due cavalieri, interrogati dell’esser loro da un misterioso personaggio che si fa chiamare Gatto Lupesco, rispondono:
Cavalieri siamo di Bretangna, ke vengnamo de la montagna, ke ll’omo apella Mongibello. Assai vi semo stall ad ostello per apparare ed invenire la veritade di nostro sire, lo re Artù k’avemo perduto e non sapemo ke sia venuto. Or ne torniamo in nostra terra ne lo reame d’Inghilterra.
Qui si allude, senz’alcun dubbio, a una credenza secondo la quale Artù sarebbe nell’Etna; ma non si afferma già ch’ei ci sia veramente. La cosa rimane in dubbio. I cavalieri se ne tornano indietro senz’essersi potuti accertare del vero (e non sapemo ke sia venuto ), e da tutto il passo sembra traspaja qualcosa della solita incredulità italiana in fatto di meraviglioso. Oltre che a quella credenza, vi è accennato, ma in modo indiretto, all’antica opinione che Artù dovesse tornare. Da ciò che precede rimane, parmi, provata l’esistenza, nei secoli XIII e XIV, di una vera e propria leggenda (non di una semplice e scioperata immaginazione individuale), la quale poneva nell’Etna la dimora di Artù, e riman provato che tale leggenda fu cognita a molti allora in Sicilia, se pur non fu popolare. Ma il tema nostro non è per anche esaurito, e alcuni dubbii che nascon da esso, e alcune particolarità che in esso si notano, richiedon ora la nostra attenzione. II
Come mai, e per quale ragione, ed a chi poté venire primamente in pensiero di strappare Artù all’isola di Avalon per porlo nell’interno di un vulcano, in Sicilia? Dobbiam noi credere che inventori della strana finzione sieno stati que’ Siciliani medesimi tra cui Gervasio, secondo attesta, la trovò divulgata? Dobbiam per contrario credere che altri uomini ne sieno stati inventori? Il dubbio, credo sarà chiarito se si riesce a dimostrare: 1° che i Siciliani non avevano ragione di sorta, né quasi possibilità d’immaginarla; 2° che la finzione stessa, specie nella forma che veste in Gervasio, ha in sé tutti i caratteri di una finzione, non italica, ma germanica, rimanda a un vero e proprio mito germanico. Cominciamo dal primo punto. Che i Siciliani non dovessero avere nessuna ragione, e quasi nemmeno la possibilità d’immaginar la finzione, s’intende assai agevolmente. La finzione stessa presuppone sentimenti, credenze, fantasie, che i Siciliani non avevano e non potevano avere: un ricordevole affetto per Artù; un desiderio immaginoso di raccostarsi in qualche modo all’eroe, una vaga speranza di vederlo tornare, quando che fosse, nel mondo. Chi poneva Artù nell’Etna doveva sentirsi legato a lui da vincoli particolari, da vincoli di cui nessuna ragione potrebbe trovarsi nella storia, nelle costumanze, nelle aspirazioni del popolo di Sicilia; e se la finzione fosse stata frutto naturale e spontaneo della fantasia di quel popolo, noi dovremmo, sembra, trovarne vestigio in alcuna delle sue croniche, laddove non ce ne troviamo nessuno. Fatto sta che ai Siciliani l’Etna ricordava altre meraviglie, e suggeriva altre immaginazioni: fatto sta che anche in Sicilia, come per tanti esempii si vede essere avvenuto nella rimanente Italia, la memoria e la fantasia tornavano ostinatamente alle storie e ai miti dell’antichità classica, ne’ quali, come in cosa lor propria, si compiacevano. Nelle croniche dell’isola si trovano ricordati i Ciclopi, i giganti fulminati da Giove, il ratto di Proserpina, la fine di Empedocle, ecc.; e si può credere che nella coscienza popolare questi fossero più che semplici ricordi di tradizioni e di favole antiche, fossero, anzi, alcuni di essi, miti tuttora viventi. Di un’apparizione dei Ciclopi e di Vulcano si fa ricordo ancora nel 1536, poco prima di una grande eruzione dell’Etna. Come in antico, si credeva che il monte ignivomo (e altrettanto dicasi degli altri vulcani, non escluso quello d’Islanda) fosse uno spiracolo dell’inferno; e le leggende che più facilmente dovevano accreditarsi in Sicilia e diffondersi; erano le leggende monacali ed ascetiche, le quali appunto si conformavano a quella credenza, e narravano di anime dannate, portate a volo entro il monte dai diavoli, e d’altre meraviglie paurose. Di queste leggende è grande il numero, e qui basterà ricordare quelle di Eumorfio e di Teodorico; narrate da Gregorio Magno, e quella del re Dagoberto, narrata dallo storico Aimoino. Subito dopo aver narrata la storia del decano di Palermo, Cesario racconta quella di Bertoldo V, duca di Zähringen, a cui i diavoli preparano nell’Etna il meritato castigo. Secondo certo racconto riferito da Pier Damiano nella vita di Odilone, dentro l’Etna si udivano le querele delle anime purganti, tormentate da infiniti demonii. Nel nome stesso dell’Etna si trovava indicata la condizione sua. Isidoro da Siviglia dice: «Mons Aetnae ex igne et sulphure dictus, unde et Gehenna». Gotofredo da Viterbo raccoglie la comune opinione:
Mons ibi flammarum, quas evomit, Aetna vocatur: Hoc ibi tartareum dicitur esse caput.
In Sicilia queste credenze dovevano essere assai divulgate. Parlando della grande eruzione del 1329 Nicola Speciale dice: «Parecchi, nelle vicinanze del monte, furono portati via dai diavoli, che assumendo varii corpi, predicavano nell’aria terribili menzogne». Quand’anche non si voglia far conto della trista esperienza che i Siciliani avevano della natura del loro vulcano; quand’anche s’immagini ch’essi avessero perduto il ricordo dei danni sofferti per esso, e poco o niun pensiero si dessero delle sue perpetue minacce, la opinione ch’essi ne avevano, come di una bocca spalancata dell’Inferno, doveva bastar a vietar loro di fingervi dentro il regno incantato di Morgana e il soggiorno di Artù; mentre a finger tali cose potevano essere tratti assai più facilmente uomini venuti d’altronde, i quali non ben conoscessero la natura del monte, e ai quali men tetre fantasie potessero essere suggerite a primo aspetto da quella tanta feracità di campi e giocondità di aspetti, cui già gli antichi non si erano stancati di ammirare e di celebrare. Veniamo ora al secondo punto. La leggenda di Artù nell’Etna non è, come s’è già notato, una leggenda nuova; è una leggenda variata; ma nella variazione sua sono alcune particolarità che meritano d’essere considerate attentamente. Artù vivo, ma ferito, dimora in Avalon, la quale è veramente un’isola del fiume Bret, nella contea di Somerset, e antica sede dei druidi. La poetica fantasia abbellì quest’umile isola, e ne fece un luogo di delizie da porre a riscontro delle famose Isole Fortunate. Goffredo di Monmouth dice di essa, nella Vita Merlini:
Insula pomorum quae fortunata vocatur.
Secondo la leggenda derivata, che, per comodità di espressione, seguiteremo a dir siciliana, Artù dimora nell’interno dell’Etna. Questa innovazione non incontrò molto favore; e noi vediamo altri eroi, come, per esempio, Uggeri il Danese e Rainouart, andare a raggiungere il buon re Artù nell’isola e non nel monte; ma non però si può dire ch’essa fosse al tutto arbitraria e illegittima. Circa il 1139 avvenne un fatto che avrebbe potuto a dirittura tagliar le radici alla leggenda della miracolosa sopravvivenza di Artù: si credette d’aver trovato, o si disse d’aver trovato, appunto nell’isola di Avalon, presso l’abbazia di San Dunstano, il corpo di Artù, morto e sepolto da secoli. Ma tale ritrovamento, cui non fu, sembra, estranea la politica, non valse a togliere certe dubbiezze, che forse già da gran tempo si avevano circa il vero luogo del rifugio di Artù, e circa alcune altre particolarità della sua leggenda. Di tali dubbiezze abbiamo parecchi indizii, oltre a quello contenuto nei versi italiani riportati di sopra. Il trovatore Aimeric de Peguilain (1205-70) dice in un suo serventese (Totas honors):
Part totz los monz voill qu’an mon sirventes E part totas las mars, si ja pogues Home trobar que il saubes novas dir Del rei Artus, e quam deu revenir.
In un codice di Helmstadt, contenente il già citato poema De diversitate Fortunae di Arrigo da Settimello, si trova una nota ov’è detto che Artù, combattendo contro certa belva, perdette i suoi cavalieri, e avendo ucciso la belva, non fece più ritorno a casa; onde i Brettoni lo aspettano ancora. Del luogo ov’egli possa essere andato non v’è più cenno. Ma, secondo l’autore del Lohengrin, Artù è in un monte dell’India, insieme coi cavalieri del Santo Gral, e nel Wartburgkrieg si dice che Artù dimora entro un monte, insieme con Giunone e con Felicia, figliuola di Sibilla, Da tutto ciò si rileva che, fuori di Brettagna, la tradizione era alquanto vaga e malsicura, se non circa la rimozione e la vita soprannaturale di Artù, almeno circa il luogo di sua dimora; e che per tempo una opinione era sorta, la quale poneva quella misteriosa dimora nell’interno di un monte. Ora, qui, noi ci troviamo in presenza di una finzione essenzialmente germanica. L’immaginazione dell’eroe rimosso dal mondo, serbato miracolosamente in vita, e destinato a futuro ritorno, è comune a molte e svariate genti; ma la immaginazione di un sì fatto eroe (o dio) chiuso nel cavo di un monte è, più specificatamente, germanica. Nella mitologia settentrionale ne sono parecchi esempii. Il dio Vodan abita nell’interno di un monte; in monti hanno stanza, insieme con le loro famiglie, Frau Holda e Frau Venus; in monti stanno rinchiusi, aspettando il giorno del loro riapparire nel mondo Carlo Magno, Federico II, Carlo V. Questi misteriosi rifugi non sono inacessibili agli uomini. Abbiam veduto, nel racconto di Gervasio, il servo del vescovo di Catania penetrare nel meraviglioso soggiorno di Artù; ma, similmente, Tannhäuser penetra nel monte ove alberga Frau Venus; un pastore penetra in quello ove Federico aspetta l’ora segnata, ecc. Nel racconto di Gervasio il servo riceve da Artù doni pel suo signore, ed è questa un’altra particolarità che ha numerosi riscontri in miti affini germanici. Non sarà fuor di luogo notare a tale proposito che Artù si trova, in modo abbastanza strano, involto in un altro concetto mitico germanico, il quale ha stretta relazione con quello del trasferimento in un monte, il concetto, cioè, della imprecazione ( Verwünschung). Leggesi nella Vita Paterni che questo santo, il quale fu vescovo di Vannes, e morì circa il 448, minacciato da Artù, imprecò contro di lui, dicendo: «Possa la terra inghiottirlo! » le quali parole profferite, tosto la terra si aperse, e inghiottì Artù sino al mento, e nol lasciò fino a che non si fu pentito ed ebbe chiesto perdono. Esaminata e discussa attentamente ogni cosa, parmi sia questa la conclusione più ragionevole: essere sommamente improbabile che i Siciliani abbiano immaginata una leggenda, la quale, per una parte, contraddice a quanto essi sapevano, o congetturavano, della natura del loro vulcano, e involge, per l’altra, un mito germanico; essere sommamente probabile che essa leggenda sia stata immaginata da uomini venuti di fuori, i quali, mentre col vulcano avevan poca pratica, potevano recar seco il ricordo di quel mito germanico, o aver conoscenza di alcuna variazione già introdotta nella leggenda di Artù. Che uomini poteron essere quelli? non gli Arabi, certo; dunque i Normanni. Vediamo quali fatti e quali ragioni si possono addurre a sostegno di tale congettura. III
Come e in che tempo penetrarono e si diffusero primamente in Italia le immaginose leggende onde s’intreccia il ciclo brettone? Quali sono tra noi le loro più antiche vestigia? Quando si tratta delle finzioni del ciclo carolingio, rispondere a così fatte domande riesce molto più agevole. Noi vediamo anzitutto le ragioni storiche, e diciamo pure morali, che dovevano, in certo modo, tirar di qua dall’Alpi la leggenda carolongia: Carlo Magno, campione della fede e della Chiesa, vincitore dei Saraceni infedeli, non era solamente un eroe franco, era un eroe universale cristiano; e questo eroe cristiano aveva, in Italia, fiaccata per sempre la potenza dei Longobardi; aveva, in Roma, cinta la corona del rinnovato impero. Oltre di ciò, noi possiamo seguitar le tracce di quei giullari vaganti, di quei cantores francigenarum, e di quei pellegrini o romei, che ce la recavano in casa, la rinarravano nelle castella e nelle corti nostre, la propagavano tra i nostri volghi. Poi vediamo com’essa metta radici e propaggini nelle croniche nostre; poi vediamo come divenga quasi cosa nostra, ripetuta da prima in quella lingua con che era giunta fra noi, o in tale che vorrebbe a quella rassomigliarsi; ripetuta poi in volgare nostro, accomodata all’indole e al sentimento di nuovi poeti e di nuovi uditori, cresciuta, variata, rimaneggiata in più modi. Per le finzioni del ciclo brettone la cosa precede altrimenti. Non solo la diffusione loro tra noi non fu provocata e sollecitata da quelle ragioni che tanto favorivano la diffusione delle finzioni carolinge, né da altre equivalenti od affini; ma le vie stesse ed i gradi per cui quella diffusione si venne pure compiendo non ci si lasciano mai vedere distintamente. Esse erano cognite fra noi sin dai primordii della nostra letteratura: è questo un fatto innegabile; ma quando vogliamo intendere e spiegare il fatto, ci è forza ricorrere alle congetture, appagarci degl’indizii. Che la poesia provenzale abbia largamente contribuito a far conoscere e diffondere tra di noi quelle finzioni, è cosa di cui non si può dubitare. Nei trovatori, i personaggi e i fatti principali che occorrono in esse sono ricordati con molta frequenza, e nei loro ensenhamen esse tengon luogo cospicuo fra le molte che il giullare, sollecito di sua arte, non deve ignorare. Passando in Italia, la poesia dei trovatori doveva non solo recarvi la notizia sommaria di quelle finzioni, ma, ancora, stimolare efficacemente la curiosità, suscitare il desiderio di conoscerle alquanto più a fondo. I primi trovatori vennero in Italia, per quanto se ne sa, sul cadere del secolo XII, quando l’epopea brettone (chiamiamola così) già sorta, anzi già famosa e divulgatissima, in Francia, stava per ricevere l’ultima mano, ed esser levata a quel più alto grado di perfezione a cui allora potesse attingere, dal suo maggiore poeta, da Cristiano da Troyes. I più antichi, della cui venuta fra noi si abbia certo ricordo, sembrano essere stati Pietro Vidal e Rambaldo di Vaqueiras; e nelle loro poesie accenni alle leggende brettoni non fanno difetto. Le poesie di Rambaldo in cui se ne trovano furono composte in Italia fra il 1192 e il 1202. L’uso di tali accenni passò certamente dai trovatori provenzali ai trovatori italiani che rimarono in provenzale, e poscia a quelli che rimarono in italiano. In una delle sue canzoni Bartolomeo Zorzi ricorda gli amori di Tristano e d’Isotta; in una sestina ricorda un fatto della storia di Perceval. Ma assai prima che ce la recassero i trovatori di Provenza, si dovette aver contezza in Italia delle finzioni onde ebbero materia, nella seconda meta del XII secolo, i romanzi francesi, ché non si potrebbe intendere, senza di ciò, come nomi di persona, tolti alla gesta brettone, compajono per entro all’onomastica italiana sino dai primi anni del secolo XII, e compajono in modo da lasciar credere che non sia quello il primo tempo del loro introdursi in essa. Molt’anni innanzi che ci venissero i trovatori, dovettero recar la materia brettone in Italia i Normanni. Si pensi alla parte che i Normanni ebbero nella diffusione della materia brettone. E per ragioni geografiche, e per ragioni storiche essi diventarono i naturali promotori e propagatori di quelle immaginazioni, di quella poesia. I Brettoni del continente assai per tempo strinsero con loro legami di salda amicizia; e nel 1066, combatterono in buon numero, alla battaglia di Hastings, sotto le vittoriose bandiere di Guglielmo il Conquistatore. I Brettoni insulari poi accolsero come liberatori i Normanni, la cui vittoria diede termine all’odiato dominio anglosassone. Più tardi, Enrico II, non solo cercò, per propria soddisfazione, le vecchie leggende di Artù, ma fece ancora il poter suo perché fossero largamente diffuse e gustate. Il trovero Gaimar, che primo mise in versi la Historia Britonum di Goffredo di Monmouth, fu normanno, e normanno fu quel Wace che ne imitò con più fortuna l’esempio, a tacere di altri. Leggende brettoni e leggende normanne s’innestarono, si fusero insieme, come può vedersi nel Roman de Rou dello stesso Wace. A gente d’indole avventurosa, quale in tutta la vita loro si danno a divedere i Normanni, la storia poetica di Artù doveva piacere naturalmente; e le guerre combattute con gli Anglosassoni, e le vittorie riportate sopra di essi, dovevano esser cagione che quella storia poetica fosse dai Normanni considerata quasi come cosa lor propria. Innamorati di quelle colorite leggende, le quali non narravano solamente, ma vaticinavano ancora, movevano da un passato glorioso e mettevan capo in un più glorioso avvenire, essi, avidi d’avventure e di gloria, dovevano recarle con sé dovunque andassero, come un suffragio poetico ai loro ardimenti, dovevano ripeterle e propagarle dovunque fermassero stanza. Con sé certamente le recarono essi in Napoli, in Puglia, in Sicilia, e in grazia loro dovettero le leggende brettoni essere conosciute per la prima volta in Italia. Di sì fatta introduzione noi non abbiamo, gli è vero, prove dirette. Nessuno dei cronisti (e non son pochi) i quali narrano le gesta dei Normanni in Italia, fa il più lieve accenno alle leggende brettoni, o lascia intendere in qualsiasi modo che i Normanni avessero recato dalla patria loro un ciclo di tradizioni o di favole, e si adoprassero a diffondere le une e le altre. Ma, dopo quanto s’è notato pur ora circa lo spirito delle croniche nostre, a quel silenzio non è da badar troppo come argomento in contrario; il valor positivo della verosimiglianza vince, in tal caso, quello tutto negativo del silenzio. Torniamo al soggetto nostro particolare. Gervasio, nel suo racconto, parla di una pianura assai spaziosa e gioconda, e di un palazzo di mirabile struttura. Non si può credere che i Siciliani immaginassero sì fatte cose nel monte; ma non parrà troppo strano, che se le immaginassero i Normanni, i quali avevano nella fantasia la, deliziosa e incantata isola di Avalon, e credevano forse di riconoscere alcune delle proprietà di essa nella ubertosa campagna in mezzo a cui sorge arduo e maestoso il vulcano. Si sa che i primi Normanni che approdarono alle coste dell’Italia meridionale, tornati in patria, narrarono meraviglie di quelle terre sorrise dal sole, e recaron con sé il desiderio di ritornarvi, come poi fecero, cresciuti di baldanza e di numero. Forse l’isola di Sicilia tutta intera assunse agli occhi loro l’aspetto della paradisiaca isola di Avalon, stanza di Morgana e di Artù. Pongasi mente ad un altro fatto. Mentre in Sicilia, come in altre parti d’Italia, sono frequenti i nomi di luoghi e le locuzioni proverbiali derivate dalle leggende del ciclo carolingio, la qual cosa prova che tali leggende erano veramente passate nella letteratura orale e nella coscienza del popolo, nulla di consimile si vede essere avvenuto rispetto alle leggende del ciclo brettone; e ciò prova che il popolo non ebbe gusto alle leggende brettoni, o che se l’ebbe, fu sì debole e scarso da escludere affatto l’ipotesi ch’esso potesse lavorarvi intorno di suo. Una eccezione vuol farsi in favore della fata Morgana. Ho già detto che costei dovette penetrare nell’Etna insieme con Artù. Ora è noto che col nome di fata Morgana si designa un fenomeno ottico (ciò che i Francesi chiamano mirage) solito a lasciarsi vedere con maggiore frequenza e perspicuità appunto nello stretto di Messina. Quel nome designa presentemente il fenomeno stesso, e non accenna più ad alcuna individuata e soprannaturale potenza che ne sia cagione; ma in origine non dovette essere così. Si credette allora alla reale presenza della fata in quei luoghi, e il fenomeno si considerò come un’opera dell’arte sua, forse com’uno dei giuochi o degli allettamenti ond’ella abbelliva l’ore e il soggiorno a’ suoi compagni di faerie. Non è, né può esser provato, ma è molto probabile che assai prima di approdare in Sicilia i Normanni avessero cognizione di una leggenda che poneva Artù nell’interno di un monte: approdati in Sicilia, essi non ebbero a fare un grande sforzo di fantasia per porre l’eroe entro il massimo monte dell’isola. Può darsi ancora che, prima d’approdarvi, essi avessero una generale notizia della possibile rimozione e dimora degli eroi nell’interno di un monte, o una particolare notizia di alcuno eroe in tal modo rimosso e dimorante, e che, trovatisi in presenza del meraviglioso vulcano, pensassero senz’altro di trasporvi il re Artù. Se parecchi poemi francesi pongono la scena della loro azione in Sicilia; se in molti altri la Sicilia è ricordata; se di parecchi si può ragionevolmente congetturare che sieno stati composti nell’isola, noi dobbiamo esserne grati, soprattutto ai Normanni; e dai Normanni dobbiam riconoscere la leggenda arturiana che Gervasio da Tilbury fu primo a raccogliere e a tramandare. |